Sali a Baita   Do Re Mi
Fa
Sol
 


Di quel
che passa
si scrive,
si canta,
si balla.

Di quel
che resta
ci bastan
gli occhi.

 

31.12.04

 
La portinaia.

La portinaia del mio emisfero destro mi sofferma questa mattina al limitare delle scale con un banale nuovo annuale pretesto.
Mi richiede un parere di quel che ne penso sui cesti delle banane in testa alle meretrici anziane che ogni giorno scavano un solco dentro il piazzale antistante il nostro borgo.
Alchè non mi sorprendo: ogni volta che scatta una molla lei è sempre pronta ad ingrassare l’ingiuria con lo spergiuro e anzi ritiene sia nobile causa a favore di mondo accrescere il perpetuo parlando su per giù del sempre mai antiquato augello.
Solo che per un abbaglio stavolta ho visto dal parlamento del mio emisfero sinistro giungere in coro una sola protesta di sdegno in culo al culturale: è mai possibile, mi si chiede infido e infine, dovere alitare costante fra il mare e il dire da che mondo è tondo per ciò per cui si è procreati al fine?
Perpetua in natura avrà certo l’inconscio di non rendersene conto ma ci sarà pure un controllo che cancelli quel che sembra un difetto: agire costantemente sotto l’impulso del sesso.
Offesa al sapere, ingiuria d’arte e clichè antistress sopravvivono e ripopolano certo ma nel mezzo, sacramento, nel mezzo non dovrebbe esserci un po’ di sano riappropriamento del gusto unico nascosto diverso ed in diversa misura in ogni noi stesso?
Calamitante fra poli opposti resto nel centro di questo personale universo e mano al mento m’interrogo ponderando se son questo o son quello.
E non ne esco.

#

21.12.04

 
La morsa del freddo.

Le ho nascoste, sai,
le tue mani nei jeans.

Fa freddo, dice il tuo sbuffo sospeso.
Ed anche se stai a fianco
del mio stesso strano passo
riesco e ruoto gli occhi dal basso
per risalire a stento
dal mento al tuo pensiero scosceso.

Sei improvvisa dal nulla tornata
e sospesa ad un nulla
dall’ abbracciare il nulla
della mia nuova paura da nulla.

Da poco è un tempo
dove il forse è ancora un fremito
e tra questo il tuo arrivo
mi brucia
mi satura
mi benda
di cura.

I tuoi dentini
non li nascondi poi così bene:
avanti,
mordi,
fai il tuo dovere.

Fermi al muretto
due gomiti vicini
ancora non s’appartengono:
ma
già
saggiano il freddo
e sciolgono il marmo.

La cartolina del panorama sottostante
si fa osservata in quattro occhi da incrocio:
solo un attimo dopo
aver permesso l’inizio
dello stesso antico
doloso gioco.

La voglia di leggerti il naso
ha lo stesso peso delle bugie che verranno
ed il sapore strano di sapersi diversi.
Quando girerà il vento
piglieremo la bufera
come fosse stata
cosa data.

I tuoi dentini
non li nasconderai più così bene:
lo sai,
morderai,
farai solo il tuo dovere.

#

3.12.04

 

Sgigolò.

Poi la domenica sera andavamo in balera. Solo se tenevi i cinque franchi ti facevano entrare. Ah gli svizzeri erano precisi per davvero, ghe n’era mia di bale. E si andava solo di domenica, caro mio, mica come adesso. Acqua di colonia e una mezz’oretta a piedi per arrivare al posto giusto.
.Chissà come puzzavi quando arrivavi.
Te belò, a quei tempi non ci si guardava mica a quelle cose lì, si era tutti così: signori con le brache di tela. Comunque te arrivavi lì ed entravi prima in 'sto atrio che era sempre pieno di fumo e c’era uno, uno sempre alla moda, che se gli davi la mancia ( du sghei eh, pensa mia che ghe regalaè chisà cos’è) ti teneva il capotto per tutta la sera.
.Se lo metteva?
Ma no, tambor, ci guardava che nessuno se lo portava via.
.Perché succedeva?
Povero ol me martino, certo che capitava, ma solo fra rasse diverse. Gli italiani ci si rispettava gli uno con gli altri. Dignità, ragazzino, era la prima regola non scritta.
.E tè com’eri vestito?
Ah io ero un sgigolò, tutto a lucido: giaca e brillantina e via alla conquista. Dopo l’atrio entravi in 'sto salone e il fumo spariva di colpo.
.E cosa c’era?
Ah poerì, c’era tutto il ben di dio che uno si aspettava: in fondo alla sala l’orchestra che suonava, quella vera, mica come adesso che vanno in discoteca e metton su quella finta. Alla parete di destra c’eran le sediole con noi uomini, una in parte all’altra. Si salutava gli amici e poi ci si sedeva sulla prima di quelle che erano libere e si guardava.
.Cosa?
Dall’altra parte, si guardava l’altra metà del cielo.
.Ma se era già notte! Cosa vedevi, le stelle?
Braò, prope i stele!
.Che stelle?
I fonnè, le donne! Alla parete di là stavano, chi da sole chi in gruppetto. Chele assieme alle altre ridevano sempre. A volte per me i fasia aposta a grignà, che non c’era motivo, ma facevano così perché volevano farsi guardare. Quelle da sole invece o erano troppo truccate, e l’irà mia cosa...
.Perché? Non dovevano?
No eh, una ragazza truccata l’ea una, diciamo, trop semplice. Non sapeva di niente all’epoca, non era per me almeno. Poi invece c’erano quelle sole che non ridevano e che non erano truccate e che sembravano lì come se non c’entravano niente. Ecco, a me andavo da quelle.
.A fare?
Era l’usanza. Si attraversava la sala e si invitava la donna a ballare. Andavi da quella che ti piaceva, diciamo e gli dicevi ‘scusi signorina permette questa danza?’
.Ah ah… davvero dicevate così?
Certo ragazzo, era quel che si dice galanteria. Poi se lei accettava allora si andava in mezzo alla sala assieme e si ballava il liscio, il walzer, il tango.
.Eri bravo?
Me? S'ere el più brao, le facevo ballare tutte, non ne saltavo una. E dovevi vedere come le portavo.
.Dove le portavi?
Le portavo nel ballo, le prendevo e le facevo seguire i passi e si andava come una sola persona. Mica come adesso che nelle discoteche ci si muove senza neanche un po’ di grazia e da soli, uno per uno, o si finisce per fare tutte ste sconcerie. Ci si sfiorava appena. Allora era già tanto. Anche solo ardaga i tète era peccato. Po’, me al fasie alì stes. Ma comunque ragasso mio c’era la passione. Adesso non c’è più. Non si sa più neanche cos’è, la passione. Dormà, ades.

Spegneva la luce.
Io mi infilavo sotto le lenzuola, mi giravo dall’altra parte e mia nonna mi dava un bacio.
Lei aggiungeva ‘credega mia a tut chel chel di sol to nono, l’è ira gnà la metà de chel chel conta chel tambor’
Poi mi rigiravo ed era la volta della carezza del mio sgigolò preferito.
Dopo pochi istanti, in mezzo a loro, già sognavo.
Troppo ruvida era la coperta in cui mia madre mi avvolgeva quando, tornando silenziosa, mi riportava lontano nel posto giusto.


#

 

 

 
   


Pixel stretti:


   


Questo è
l'ultimo
inchiostro
mercantile
fresco di
sale e rime.


Qui ultimamente
sto in compagnia
di bella gente.

 

carta

Quest'altro
invece
è a spasso
per Santiago
con le prime
piume.



Il Pallone,
se sei così vecchio,
ora l'avresti perso.

Fortuna che,
come niente,
ora è tornato
tranquillo come sempre.

Se spulci
attento
già c'è l'eco
archiviato
di quel che ero.

Comunque
di certo
rimane solo
lo Sghembo,
ed è questo:

Home.

     
    Cerca che ti passa  
   
Vi lascio la punteggiatura, ma non nel mezzo: quello e' tutto fra la mia testa ed il blu.
Percio', nel caso vi piaccia per gloria o pecunia, almeno un grazie o una mancia rauca.
 
   
creativo